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24
Nov

Intervista a Domenico De Masi

Domenico De Masi è un sociologo italiano che da anni si dedica alla sociologia del lavoro e delle organizzazioni. I suoi studi trattano diverse tematiche, tra cui la società postindustriale, gli aspetti socio-economici, i bisogni emergenti, i nuovi soggetti sociali, la creatività, il lavoro, il telelavoro, l’ozio creativo, il tempo libero, i paradossi sociali e aziendali.
Abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con lui a partire dal suo ultimo libro-provocazione Lavorare gratis, lavorare tutti. Perchè il futuro è dei disoccupati.

 

Bibi Bellini: Il suo ultimo libro Lavorare gratis, lavorare tutti ricorda tanto la provocazione di Danilo Dolci quando nel 56 a Partinico attuò il suo Sciopero alla rovescia.
Domenico De Masi: Sono contento che lei citi Danilo Dolci perché in genere tutti citano il “lavorare poco lavorare tutti” come fosse uno slogan del 68, invece lei ha ragione. Io ho lavorato con Danilo Dolci quindi so bene a cosa si riferisce.

BB: Può raccontarci la proposta del suo libro e le sue fasi di attuazione?
DDM: È molto semplice. Avendo noi questa situazione che sembra impedire la lotta alla disoccupazione, il problema diventa ridurre l’orario di lavoro, che nel nostro paese è gravato dalla pessima abitudine di molti manager di trattenersi al lavoro due ore in più al giorno senza farsi pagare lo straordinario. Si tratta dell’abitudine diffusa perlopiù nei paesi cattolici, mentre in quelli protestanti alle 17 in punto tutti lasciano l’ufficio.

BB: E quindi?
DDM: 
E quindi come possono i 3 milioni di disoccupati convincere i 23 milioni di occupati a cedergli un decimo del loro lavoro? Parliamo di 4 ore alla settimana su 40: il necessario per azzerare la disoccupazione. Secondo me l’unica azione possibile, efficace e non violenta, è mettersi in concorrenza con gli occupati.

BB: E come?
DDM: 
Gli occupati hanno i loro sindacati, le lobbies, i giornali, mentre i disoccupati non hanno nulla, ognuno rimane solo a casa sua. L’unico modo che i disoccupati hanno per mettersi in concorrenza con gli occupati, è di lavorando gratis. In questo modo tutte le attuali regole protezionistiche salterebbero.

BB: In molti lo fanno già, anche se non in modo organizzato e sistematico.
DDM: 
Al momento succede solo in modo frammentario e non lo fanno tutti. Si tratterebbe invece, secondo me di creare una piattaforma, come nel caso di Uber o Airbnb, in cui il disoccupato tramite un’app sa quante persone vicino casa hanno bisogno di lui e ci va gratis. Se tre milioni di persone fanno tutto ciò sistematicamente, prima o poi gli occupati dovranno scendere a patti.

BB: Dal punto di vista legale, assicurativo, delle tutele, una cosa del genere non sarebbe impossibile?
DDM: 
No, io posso regalare il mio lavoro a chi voglio, posso fare la babysitter, posso fare visite mediche, non c’è nessun divieto. Se ho bisogno di un idraulico e chiamo mio cugino non c’è alcun problema. Io, come moltissimi altri, ad esempio, scrivo gratis sui giornali.

BB: Secondo lei c’è una generazione che può interpretare questa provocazione? Penso alla generazione dei millennials, definita anche generazione erasmus.
DDM: Per quanto riguarda l’abilità dei millennials a fare quello che io propongo, più si va verso un mondo digitalizzato più sicuramente sarà possibile trovare un’attitudine a utilizzare la piattaforma a cui mi riferivo prima in modo da valorizzarne le possibilità antagonistiche. Lei tenga conto che Microsoft è del 1975, il web è del 1991, Google è del 1997, Facebook è del 2004, Twitter del 2006. Questo significa che chi è nato con queste innovazioni è ancora giovane (i meno giovani, ossia quelli nati con Microsoft avranno nel 2030 appena 55 anni). Mano a mano ci sarà un ricambio generazionale, e mano a mano che tale ricambio avverrà la disponibilità ad agire attraverso queste piattaforme sarà molto più alta.

BB: Quali opportunità vede per i ventenni di oggi, quali devono essere i modelli, anche formativi, per queste nuove generazioni?
DDM: 
Dal punto di vista formativo i modelli possono essere moltissimi, perché la scuola e la cultura sono oggetto di continue trasformazioni. Se pensiamo che la cultura era qualcosa prodotto da pochi per pochi ancora nella prima metà del 1900. Il Mozart della situazione scriveva sinfonie che venivano ascoltate da poche persone, dalla corte e dal clero. Poi con i media lo stesso concerto poteva essere seguito da pochi ma ascoltato contemporaneamente da milioni di persone. Oggi non solo la cultura può essere prodotta da pochi e fruita da molti, ma può invece essere prodotta da molti e fruita da molti, come nel caso di Wikipedia. Siamo alle soglie di una cultura completamente trasformata nella sua produzione, distribuzione e fruizione.

BB: Saprebbe individuare le caratteristiche e le capacità (le skills) necessarie per i prossimi anni su tre piani, ossia sul piano del sapere, del saper fare e del saper essere, che rappresenta il piano valoriale?
DDM: 
Sul piano del fare è chiaro che avremo una rivoluzione profonda, perché tutto ciò che sarà fatto in modo fisico ed esecutivo potrà essere delegato alle macchine, e così anche una parte del lavoro creativo potrà essere delegato al lavoro artificiale. Così se noi abbiamo al momento circa 1/3 di operai, 1/3 di impiegati e 1/3 di creativi, nel prossimo futuro avremo un 50% di creativi, un 25% di operai e un 25% di impiegati. Ci sarà una rivoluzione profonda nella composizione della forza lavoro. Per quanto riguarda i valori, io credo si passerà sempre più da valori di natura quantitativa, come il valore denaro, il valore potere, il valore possesso di cose, ad una serie di valori di carattere qualitativo, come il bisogno di introspezione, gioco, amicizia, amore, di bellezza, di convivialità. Sono tutti passaggi profondi che noi stiamo producendo e che io credo nel prossimo futuro si accelereranno.

BB: Secondo lei quale ruolo svolgono nella società i meccanismi collaborativi e cooperativi? Secondo lei il cooperare, il fare le cose insieme, è un’attitudine sociale in crescita?
DDM: 
Noi usciamo da una cultura impregnata di liberismo dalla fine del 700: dalla pubblicazione della bibbia liberale che è “La ricchezza delle nazioni” di Smith, con poi a seguire l’evoluzione del neo-liberismo, negli anni trenta con le due scuole di Vienna, e poi ancora la scuola di Chicago di Samuelson. Praticamente l’idea liberale in economia e poi anche nel sociale ha avuto il sopravvento. L’idea liberale si basa sul concetto di competitività, sull’idea di un uomo egoista e sull’idea che mettendo in libera circolazione sul mercato i vari egoismi poi possa uscire come per miracolo una società equilibrata. Io credo che noi prenderemo atto sempre più che le cose grandi fatte dall’uomo non sono state fatte grazie alla competitività ma alla solidarietà. Nel corso della storia abbiamo fatto passi avanti quando abbiamo trovato una possibilità di agire in modo solidale. Credo che questo si capirà sempre di più nel prossimo futuro, perché siamo arrivati ad un livello di competitività così efferato che oggi 8 persone, le 8 persone più ricche al mondo, hanno la ricchezza di 3 miliardi e 600 milioni di persone.

BB: Ho letto sulla Harward Business Review di un fenomeno chiamato overload collaborativo, che si verifica quando l’eccesso di collaborazione diventa anche un disvalore e porta a una perdita di produttività. Che ne pensa?
DDM: 
L’Harward Business Review è stata il Vangelo del liberalismo fin da quando è nata, quindi non mi meraviglio che non riesca a capire che lo sviluppo del liberalismo porta poi alla grande bomba madre di tutte le bombe.

BB: Come si può promuovere invece la formazione, lo scambio di competenze e informazioni tra generazioni diverse?
DDM: 
Intanto abbiamo da sistemare una serie di diseguaglianze. Il liberalismo nel suo iper-trionfo, per cui non c’è economia nel mondo che non sia neo-liberista, ha portato a grandi diseguaglianze, nella distribuzione della ricchezza, del potere, del sapere, delle opportunità, delle tutele e del lavoro. Si tratta perciò di diseguaglianze spalmate su tutto l’agire umano. Tutto questo è poi stato ampliato dalla dialettica disumana tra comunismo e capitalismo, perché il comunismo sapeva distribuire ricchezza senza saperla produrre, mentre il capitalismo sa produrre ricchezza senza saperla distribuire. Questi paradossi hanno portato alla situazione attuale, nella quale bisogna rimarginare tutto questo con un patto profondo tra generazioni, tra giovani e anziani, tra indigeni, autoctoni e immigrati, tra colti e non colti, tra ricchi e poveri, perché altrimenti la dilatazione eccessiva delle diseguaglianze porta poi a conflitti insanabili.

BB: Quindi ridurre le diseguaglianze è il primo obiettivo
DDM: 
Sì però il problema è che attualmente le stiamo aumentando, perché quegli otto che hanno in mano la stessa ricchezza di metà umanità, solo tre anni fa erano 62, e 10 anni fa erano 385. Quindi se per eguagliare la ricchezza di metà umanità dieci anni fa occorrevano 385 ricchi, oggi ne bastano 8, e tra un paio d’anni ne potrebbe bastare uno solo. D’altra parte questa tendenza la riconosce Warren Buffett che è il terzo uomo più ricco del mondo, il quale sostiene che la lotta di classe tra ricchi e poveri esiste e che i ricchi la stanno vincendo.

BB: Lei ha studiato i gruppi creativi in un libro molto bello “L’emozione e la regola”. Quali sono le caratteristiche, gli ingredienti e le varianti che favoriscono i gruppi creativi?
DDM: 
La forza di molti gruppi creativi consiste nel fatto che agiscono in grande simbiosi. Penso ad esempio al progetto Genoma, che è riuscito a creare una rete di solidarietà e collaborazione nel mondo intero, che ha permesso di mappare il genoma umano in pochissimi anni, contro i decenni che sembravano necessari. C’è una forte interazione tra scienziati, anche quando appartengono a paesi in guerra tra di loro. Un altro livello di maggiore interazione è quello dell’arte, ogni film che noi vediamo è multinazionale, multirazziale. Ci sono esempi di interi stati come il Brasile, che ha al suo interno 44 – 45 etnie che vanno molto d’accordo tra di loro, molto più che negli Stati Uniti. Il Brasile confina con undici paesi e in 500 anni ha fatto una sola guerra nell’800 contro il Paraguay, mentre noi in Europa ci siamo sbudellati per secoli.

BB: Quale può essere secondo lei l’humus che può generare questi gruppi creativi?
DDM: Guardi noi già abbiamo avuto un caso preciso, cioè i gruppi creativi si sono sviluppati soprattutto in Europa, tra la fine dell’800 e la metà del 900 come scrivo nel mio libro. Mentre in America sviluppavano la catena di montaggio, che è la massima divisione del lavoro, in Europa invece fiorivano gruppi creativi in cui la sinergia era fondamentale. Questi gruppi erano numerosissimi, io ne ho schedati più di 400 e poi ne ho studiati a fondo 13, che rappresentano diverse modalità organizzative. Erano gruppi creativi sia nell’ambito artistico, pensi alla Bauhaus o ai preraffaelliti in Inghilterra, alla Wiener Werkstätte in Austria, sia gruppi scientifici, come il gruppo Fermi da noi o il gruppo di Pasteur in Francia. Una vera e propria fioritura di gruppi creativi mentre l’America perfezionava i gruppi esecutivi. Abbiamo anticipato il mondo postindustriale di 100 anni rispetto agli altri, solo che ora non ne siamo consapevoli e orgogliosi, perciò mortifichiamo la radice che ci ha creato, ossia la radice umanistica, e proviamo a rincorrere i paesi che sono più forti di noi nella radice tecnica. Questa è una follia, perché ci troveremo con un mondo, un corpo planetario con un braccio lunghissimo, quello tecnologico, e un braccino anchilosato, che è quello dell’umanesimo. Mentre noi saremmo dovuti essere quelli che fornivano al mondo il grande respiro umanistico, come abbiamo fatto per circa venti secoli.

BB: Secondo lei c’è la possibilità di ricreare un nuovo umanesimo negli anni a venire?
DDM:
Io credo ci sia un bisogno, un’esigenza e una richiesta sempre maggiore. Più il mondo si tecnicizza, .. più telefonini ci sono, più app servono, e le app le crea l’umanesimo, non le mette in campo la dimensione scientifica. La dimensione scientifica fornisce il cellulare, ma i contenuti ce li mette l’umanesimo. Dobbiamo avere più consapevolezza.

 

 

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