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29
Set

Intervista a Raffaele Alberto Ventura

Cosa succede se un’intera generazione, allevata nella convinzione di poter migliorare la propria posizione nella piramide sociale, scopre all’improvviso che i posti sono limitati, che quelli che considerava diritti sono in realtà privilegi e che non basteranno né l’impegno né il talento a difenderla dal terribile spettro del declassamento? Raffaele Alberto Ventura, collaboratore di Linus, Internazionale, Minima et Moralia e fondatore del blog Eschaton, prova a fornire un’analisi ed una risposta a queste domande col suo esordio Teoria della classe disagiata, pubblicato da Minimum Fax.
In questa lunga conversazione con Giovanni Bitetto, redattore di Ultima Pagina, Ventura formula un’autocritica impietosa della sua generazione, «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per realizzarle».

Raccontaci la tesi principale del tuo libro, il cui titolo capovolge La teoria della classe agiata di Veblen.
Sono partito con un gioco di parole, appunto: deturno il titolo di questo saggio di inizio Novecento che descriveva una borghesia impegnata in quelli che Veblen chiamava i consumi posizionali, ovvero l’ostentazione di certi elementi – tra cui i consumi culturali – che le servivano a  garantire la propria posizione sociale. Sono partito da questo perché mi sembrava interessante osservare che anche oggi la classe media risponde un po’ allo stesso meccanismo: accumula dei segni di posizione sociale ed economica per garantirsi una permanenza nella propria classe ed eventualmente ascendere socialmente. Tutto questo diventa disagiato nel momento in cui abbiamo delle difficoltà a garantirci quel tipo di consumi, ma anche nel momento in cui quella stessa competizione per continuare a garantirli crea una sorta di circolo vizioso. La tesi, se vogliamo un po’ provocatoria, è così riassumibile: c’è questo disagio, ma non si tratta di un disagio dovuto ad una condizione di povertà assoluta, bensì ad una povertà relativa che dipende da un eccesso di risorse accumulate in certe parti della classe media che spingono con forza centrifuga fuori da questa classe chi non ha risorse sufficienti per continuare questa gara posizionale a chi ha le aspirazioni più lunghe.

Uno dei pregi del tuo libro è che poni le basi per questa teoria sociologica ed economica mediante l’analisi di diversi settori della società, tra i quali il sostrato educativo. Ecco, io vorrei soffermarmi sulla scuola, magari cercando di capire qual è il ruolo che ha avuto nella formazione di questa ‘classe disagiata’.
La scuola ha due missioni: la prima è creare degli individui che abbiano una cultura, che può essere più o meno quantitativamente avanzata. L’altra è formare delle persone che troveranno un lavoro. Il problema strutturale della scuola, che è stato intuito sin dagli anni Trenta del Novecento dai sociologi, è che in realtà queste due missioni entrano talvolta in conflitto: penso, per esempio, a quelle persone che hanno una certa cultura e certe velleità sviluppate dal sistema scolastico e non trovano un posto di lavoro. Nel sistema tedesco, molto più rigido di quello nostrano, non si sviluppano aspirazioni, i percorsi scolastici sono più lineari: c’è qualcosa di migliore in questo meccanismo, in quanto viene meno questo sfasamento doloroso che crea molto risentimento nella società. Ma allo stesso tempo la rigidità è un problema: io stesso mi sentirei un po’ a disagio nel proporre prescrizioni di questo tipo, anche perché non sta a me farle. Nel mio libro, analizzando la mia situazione – che è una situazione di relativo privilegio, in quanto io sono emigrato ed ho trovato lavoro grazie ai miei studi – ho voluto insistere su questa insoddisfazione relativa alle aspirazioni. Nel capitolo sulla scuola parlo di Ivan Illich, un pensatore impossibile da condensare in poche parole: era una specie di prete semi-spretato che poi è diventato un idolo della sinistra hippie negli anni Sessanta. Ha scritto dei saggi molto lucidi che all’epoca potevano parere utopistici, ma che in realtà si sono rivelati molto più realistici di quell’utopia che veniva proposta dagli economisti mainstream dell’epoca, i quali immaginavano una società perfetta in cui erano risolti i problemi di scarsità. Lui sosteneva che “la scuola, oggi, insegna ai poveri a pensare da ricchi”: e qui ritorna quella contraddizione di cui parlavamo all’inizio. Da un lato c’è una dimensione emancipatoria del “pensare da ricchi”, d’altra parte una società che fa delle promesse e non le mantiene crea un modello insostenibile. Oggi temo che ci troviamo in questo secondo caso, il quale rimane un paradosso molto pericoloso.

Nel libro parli esplicitamente di millennials, prendendo come categoria anagrafica i nati dal ’78 al ’99. È un segmento abbastanza ampio: quali sono le differenze che vedi fra i nati nei primi Ottanta e gli attuali ventenni?
Io ho 34 anni e pertanto non frequento moltissimi ventenni. Tuttavia, parlando recentemente con dei ragazzi più giovani di me, ho avuto l’impressione che siano una generazione più lucida: sanno che il mondo del lavoro è difficile e fanno scelte più oculate rispetto a noi che non sapevamo che ci sarebbe stata la realtà economica ad aspettarci: l’anno in cui mi sono laureato alla specialistica è stato quello della caduta di Lehman Brothers. È possibile che la crisi che ne è seguita abbia creato un contesto in cui i giovani sono più vigili. È sicuramente vero, invece, per la mia esperienza – io ho iniziato l’università nel 2001, pochi giorni dopo l’11 Settembre, un evento geopolitico dirompente ma che economicamente, forse, segnalava meno la fragilità del capitalismo occidentale – che ci sono persone che hanno vissuto in una forchetta di tempo che li ha aiutati meno a capire queste cose e ad avere un approccio realistico agli studi. Una cosa di cui io mi stupisco abbastanza nel libro è che, sostanzialmente, il capitalismo occidentale è in uno stadio di crisi perenne da decenni: i primi testi che avvertono “attenzione, gli indicatori stanno scricchiolando” iniziano a comparire ad inizio anni Sessanta. Ciò significa che il famoso boom economico, in realtà, è durato veramente molto poco. Sono cinquant’anni che ci sono delle avvisaglie, ogni decennio la crescita del PIL è sempre meno importante: ci siamo occultati il fatto che ci fosse una crisi latente, che io cerco poi di spiegare facendo riferimento a pensatori come Giovanni Arrighi, che è uno studioso dei cicli di accumulazione del capitalismo, al quale mi sono affidato per spiegare qual era il contesto in cui nasceva il pessimismo abbastanza profondo del mio libro.

Nell’ultima parte di Teoria della classe disagiata inquadri il declassamento di questa generazione in una prospettiva politica, incrociandolo con vari fenomeni quali l’ascesa in Francia di Lepen e l’elezione di Trump. Oltre a questo sbocco populista, pensi che il risentimento della ‘classe disagiata’ possa avere un approdo progressista?
Il modo in cui inquadro la questione, effettivamente, si concentra molto sul rischio che – storicamente – ha sempre rappresentato la situazione di una borghesia alle strette che si dimena e che deve fronteggiare la sua crisi ed il suo declassamento. In molte occasioni nella storia questa crisi ha preso la forma di quello che chiamiamo fascismo, che è una forma di socialismo della borghesia, ovvero un uso di certi concetti del socialismo in un contesto che non è quello della classe laboriosa. Ipotesi progressiste possono essere immaginate sulla carta: in particolare io attiro l’attenzione su una dinamica di tutti contro tutti sul mercato del lavoro. Dinamica che potrebbe essere combattuta con una forma di sindacalizzazione o di attuazione di norme regolatrici – legali o informali – come per esempio griglie di salari. Di base, secondo me, se uno guadagna meno di quanto spenda per vivere è una vittima ma è anche un colpevole, perché in fondo significa che i soldi li stai prendendo altrove ed in questo modo li stai usando per far abbassare il costo del lavoro. Ci sono delle scelte sbagliate, che nascono spesso dalla speranza di trovare qualcosa dopo (ma chiaramente c’è una differenza tra fare uno stage per sei mesi oppure lavorare per dieci anni a queste condizioni), però secondo me ci sono delle misure che sono fattibili e che vanno nella direzione di quella che potremmo chiamare cooperazione, un concetto di teoria dei giochi che si oppone all’escalation. Ed è quello che ho ritrovato anche nello storico arabo Ibn Khaldūn, il quale parla di asabiyyah, un principio di cooperazione tra gli individui: “una società quando smette di avere l’asabiyyah”, ovvero la sua anima, il modo in cui gli individui cooperano, “è condannata”. Questo è vero, non riusciamo a cooperare perché sostanzialmente le opportunità che ci vengono offerte sono così poco numerose che anche se una parte della classe creativa si sindacalizzasse, ci sarebbero fuori una serie di outsider che – anche legittimamente – direbbero: “Vabbè, ma perché io devo restare fuori?”. Io oggi posso autoprodurmi un libro, questo libro nasce autoprodotto: la situazione me lo permetteva, la tecnologia me lo ha permesso, Amazon me lo ha permesso, e chiaramente questo mi è servito. Questo tipo di scelta tra libertà di espressione e libertà di vivere del proprio lavoro è una scelta complicata e tragica e tutti siamo colpevoli di questo meccanismo. Mi appare difficile immaginare come potremmo disarticolare questa specie di ‘stallo alla messicana’, in cui ognuno ha la pistola puntata uno contro l’altro: quando sei in questa situazione il primo ad abbassare l’arma muore.

C’è un bellissimo capitolo che si chiama Il giardino dei ciliegi, nel quale riprendi Čechov: i nobili decaduti che lottizzano il proprio giardino per venderlo ai borghesi come un fenomeno di uberizzazione del patrimonio, quasi una dinamica da sharing economy: non ne parli esplicitamente ma mi sembra che, citando questo brano di Čechov, tu voglia parlare del reddito di cittadinanza.
Io non ho assolutamente pensato al reddito di cittadinanza scrivendo quel capitolo; tuttavia ti rispondo generalmente: il reddito di cittadinanza a mio avviso ha due problemi. Il primo è che oggi, per come ho analizzato sociologicamente la ‘classe disagiata’, il problema non è la mancanza di risofrse private bensì la loro abbondanza relativa. Negli anni del boom, certe famiglie hanno accumulato risorse in forma immobiliare o in forma di risparmi con le quali hanno potuto pagare gli studi dei loro figli. Una parte della popolazione l’ha fatto, una parte non l’ha fatto. Questo, oggi, crea quella che Giovanni Arrighi chiamava crisi di sovraccumulazione, ovvero ciò che accade quando gli agenti economici hanno troppe risorse rispetto alle opportunità di investimento. Queste risorse sovraccumulate vengono utilizzate in conflitto fra i diversi agenti, in quella che diventa una situazione di perdita generalizzata – io la definisco mutuo declassamento assicurato – tra coloro i quali partecipano a questa competizione. La mia impressione è che, dunque, non ci sia un problema di reddito di cittadinanza nella ‘classe disagiata’: poi, ovviamente, c’è un problema di miseria in certe fasce basse della popolazione, però il ceto medio non ha bisogno di più sacche di risorse da usare, perché queste risorse le userebbe per questa stessa competizione, e questo alzerebbe il livello del mare. Non vorrei inoltre che con la carota del reddito di cittadinanza si smantellino certe istituzioni pubbliche che, in certi casi, sono molto più performanti rispetto al libero mercato in certi settori: per esempio, nella sanità il pubblico funziona molto meglio del privato in termini di economia di scala, ed uno dei problemi dell’America è proprio l’assenza di quest’economia di scala.
La seconda ragione, un po’ banale, è quella del finanziamento: la mia impressione, riprendendo un po’ gli economisti marxisti, è che il vero problema strutturale del progresso industriale è che i prezzi di vendita tendono ad allinearsi sui costi di produzione. Ciò significa che, mano a mano che la tecnologia progredisce, la concorrenza tra le aziende fa sì che il saggio di profitto sull’unità di prodotto diminuisca. Quindi chi sopravvive sul mercato sono le grandi aziende, perché guadagnano sempre meno su masse sempre più grandi: questo capitalismo che produce sempre più merci in realtà ha molta difficoltà a produrre profitto, o meglio, ne riesce a produrre tanto ma solo su larghissima scala; mi chiedo perciò se queste risorse esistano davvero. Certo, c’è del capitale finanziario in quantità enormi, ma virtuali. Il vero problema della ‘classe disagiata’ non è tanto il pagarsi quelle cose che l’automatizzazione ha reso quasi gratuite, bensì pagarsi i beni posizionali, ovvero i beni non scalabili, quei beni sui quali l’industria non solo non abbassa il prezzo, ma anzi: più si abbassa il costo dei prodotti industriali, più aumenta il costo delle cose non scalabili – ad esempio uno spettacolo teatrale. Uno spettacolo teatrale dura un’ora, non è scalabile, lo spazio è limitato. A mio modo di vedere ci sono delle contraddizioni strutturali che rendono difficili questo tipo di soluzioni: ovviamente è un dibattito enorme ed io posso dare solo un punto di vista parziale, basato su letture parziali.

Tu vivi in Francia, perciò ti confronti con una situazione diversa da quella italiana. Quali sono le differenze fra i due paesi e quali elementi esporteresti in Italia ed importeresti in Francia?
La situazione francese, effettivamente, è molto diversa: là esiste un mercato del lavoro, ci sono delle disfunzioni ma sono meno visibili e meno accentuate. Detto questo, è difficile esportare una singola misura: il problema di fondo è che se esporti una singola misura buona in un altro paese può non funzionare. C’è sicuramente una gestione più oculata, abbondante ed intelligente dei finanziamenti pubblici, ma non saprei dirti cosa importerei. Ciò che importerei, forse, non è tanto una misura pubblica, bensì la mentalità. Ad esempio: in Francia i ragazzi iniziano a lavorare prima, il mercato del lavoro è più accessibile e l’economia è più funzionale. Secondo me capire che entrare nella vita attiva, a un certo punto, non può essere rimandato è importante per varie ragioni. Una di queste ragioni è non costringere tutta la società a inseguire quelli che possono durare di più; questo sarebbe anche un modo di appianare leggermente certe differenze con chi ha meno risorse per fare studi più lunghi, e anche fra i sessi. Ciò potrebbe disinnescare questa competizione che crea molto dolore. È chiaro che in questo caso, però, si delineerebbe una società molto più dura, come quando parlavamo all’inizio delle filiere professionali in Germania: ciò ha un costo umano, un costo emotivo, c’è un grande stress sul lavoro in Francia. In certe cose, inoltre, c’è meno fantasia, essendo che la gente studia meno: ci sono meno percorsi atipici. Però mi pare che in Italia si sia arrivati ad una situazione in cui questa cosa non è più sostenibile e produce quello che io chiamo il disagio.

Luca Lovisetto

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