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11
Mag

Intervista a Paolo Venturi

Paolo Venturi è Direttore di AICCON, Centro Studi promosso dall’Università di Bologna e dall’Alleanza delle Cooperative Italiane e direttore di The FundRaising School, prima scuola italiana sulla raccolta fondi. Componente del Comitato Scientifico della Fondazione Symbola, del CNV – Centro nazionale per il Volontariato e della Social Impact Agenda per l’Italia. Fa parte della redazione della Rivista Impresa Sociale, collabora con numerose testate e blog fra cui Il Sole 24 Ore e Vita Magazine. Lo abbiamo intervistato.

Bibi Bellini: Quali sono secondo lei le soft skill e le metacompetenze del futuro, utili a questa generazione che definiamo “millennials” ?
Paolo Venturi: Le competenze del futuro sono competenze che hanno a che fare sempre di più con la relazionalità e l’empatia. Soprattutto nel welfare e nella futura “economia della cura”, nella misura in cui la tecnologia diverrà sempre più pervasiva, sarà necessario passare da una logica “prestazionale”, a una logica sempre più “relazionale”. Da questo punto di vista, è sicuramente importante fare formazione sulle “digital skills” che sono competenze alte, legate all’apprendimento delle nuove tecnologie e dei nuovi sistemi informatici, ma ancora più importante è quella flessibilità, quella capacità di adattamento e di creatività, d’innovazione, che in qualche modo fanno e faranno la differenza. Il contesto, sarà un contesto di cambiamento strutturale, quindi la capacità di adattarsi, e quindi di essere persone capaci di risolvere i problemi in un contesto complesso, saranno decisivi. Questo dal punto di vista del sistema sociale, della cooperazione sociale è un cambiamento epocale, perché da sempre le competenze sono state costruite sulla base di mansioni, sulla base della progettazione… questo sarà ancora necessario ma non più sufficiente.

BB: Da un punto di vista più generale, non focalizzato sul sociale, le competenze utili sono sempre le stesse?
PV
: Sì, assolutamente sì. Il World Economic Forum e il McKinsey, che sono delle Istituzioni, degli organismi, degli Enti di Ricerca e Consulting a livello mondiale, che operano sia dal punto di vista delle policy sia dal punto di vista del for profit, ci dicono che le dieci skills più importanti hanno a che fare proprio con queste capacità, alla disponibilità all’adattamento, la capacità di essere creativi, la capacità di essere empatici, di creare occasioni di coordinamento invece che gerarchiche … sono tutti elementi che hanno molto a che fare con la dimensione relazionale, quindi sono importanti per il non profit e per l’impresa sociale perché hanno a che fare molto con “la cura” – che è un settore che fa della relazione la cosa più importante – ma diventa un elemento fondamentale anche per le imprese; le imprese sono sempre di più delle “piattaforme” , sono sempre più mediate da queste “piattaforme tecnologiche”.
Ecco che, dentro questa intermediazione, o meglio disintermediazione, che la tecnologia mette in moto, viene potenzialmente amplificato il valore delle relazioni. Un fatto questo che bisogna capire e su cui occorre investire.

BB: Faccio l’Avvocato del diavolo: mi sta dicendo che il guidatore che lavora per Uber e che riesce a essere più “smart” e più simpatico o empatico, avrà un vantaggio competitivo con il suo lavoro?PV: No, innanzitutto Uber non è una classica piattaforma di sharing economy ma è il classico esempio di economia “on demand” che è una cosa completamente diversa da una piattaforma tecnologica che mette insieme in qualche modo in una logica peer-to-peer, quindi tra pari, tra chi consuma e chi produce. Uber è un soggetto monopolista che estrae valore scaricando i costi molto sulla precarietà del lavoro, in molti casi, e comunque estraendo valore che viene delocalizzato in altri posti.
Nel convegno Essere Dati giorni fa parlavamo dei robot, della capacità di automatizzare i processi in termini di servizi alla persona, ma anche delle piattaforme di connessione: per rimanere sul concreto, prima nel convegno Turrini parlava di come in Coop Alleanza 3.0 si stanno sperimentando delle piattaforme in cui i soci della Coop possano interagire con logiche intermediate dalla tecnologia. Da questo punto di vista, ripeto, bisogna saper distinguere, quando si parla di tecnologie di piattaforma, tra “piattaforme inclusive” e “piattaforme estrattive”: sono estrattive quelle piattaforme che delocalizzano, estraggono il valore; invece sono inclusive quelle che premiano il lavoro e lo reinvestono nel territorio, nell’ambito in cui questo viene prodotto. Quindi prima di entrare nel merito di come le piattaforme impatteranno sul lavoro, bisogna capire di che tipo di piattaforma parliamo.
Uber è, diciamo, la classica start-up che sta crescendo su un modello di business che conosciamo benissimo: accelerato, basato sulla destrutturazione del lavoro, sulla frammentazione e sulla richiesta on-demand. Questa cosa è un elemento che, per carità… io sono per la libertà…ma non è certo la piattaforma che ho in mente quando penso all’innovazione sociale!

BB: Certo. La generazione dei “Millennials” ha queste caratteristiche, queste peculiarità, queste skills?
PV: Assolutamente. Lei pensi che il 72% dei Millennials identifica il consumo come un consumo “esperenziale”, nel senso che i momenti di consumo – che vanno dal bersi un caffè, oppure lo studio in una biblioteca, o fare un viaggio eccetera – ecco dentro queste esperienze tipiche di consumo, va a cercare questa dimensione di esperienza: in questo senso l’offerta deve diventare sempre più relazionale, perché chi vende un bene o un servizio non si deve accontentare di vendere un prodotto, ma deve vendere…

BB: una visione del mondo?!
PV: Sì, una visione del mondo, una personalizzazione del servizio, una dimensione umana: tutto quello che la tecnologia ancora non riesce a fare e che solo le relazioni umane, interpersonali sono in grado di portare a valore. Quindi, se da un lato è vero che c’è questo rischio, ed è reale, che la tecnologia spiazzi il lavoro, dall’altro c’è l’opportunità di ricollocare gran parte del lavoro in nuove modalità di servizi e di relazioni che sono in molti casi a valore aggiunto.

BB: In effetti le tecnologie, come diceva lei poco fa, rischiano di spiazzare il lavoro: l’eclissi del cittadino lavoratore probabilmente si porterà dietro anche l’eclissi del cittadino consumatore: cosa rimarrà in questo buio?
PV:
Adesso siamo in un momento particolare, in cui sono evidenti i segni di questa frattura, prodotta dalla tecnologia e anche da un certo modo di intendere lo sviluppo e la crescita, ed è per questo che uno dei temi del dibattito pubblico è proprio quello del reddito di cittadinanza, o del reddito di inserimento, insomma strumenti che riescano ad ammortizzare questa fase di passaggio. Non c’è dubbio che i lavori a più bassa valore aggiunto, quelli che hanno a che fare con la manodopera, hanno una altissima possibilità di essere sostituiti. Come dicevo prima, sicuramente ci sarà un tasso di sostituzione: la cosa che noi dobbiamo fare è ridurre il più possibile il gap fra i nuovi bisogni, le nuove opportunità e le competenze dei lavoratori; non possiamo immaginarci che i lavoratori che oggi sono legati al ciclo produttivo, a un macchinario, possano continuare a immaginarsi il proprio lavoro legato a una tecnologia che di anno in anno cambia totalmente. Bisogna che le imprese investano in una re-ingegnerizzazione delle competenze, e questa re-ingegnerizzazione ha molto a che fare, ripeto, con questa capacità di combinare da un lato la tecnologia dall’altro la dimensione sempre più relazionale.

BB: E questa re-ingegnerizzazione avrebbe bisogno di grandi risorse, grandi capitali?
PV:
Mmm, guardi, non lo so: per stare sul tema cooperazione, la cooperazione ha tra i suoi principi fondanti l’educazione e la formazione – che è il quinto principio cooperativo – e ha la collaborazione e cooperazione tra cooperative – che è il sesto principio cooperativo – e la relazione con la comunità, settimo principio cooperativo: io penso che la cooperazione debba ripartire da questi tre principi, però immaginando che la tecnologia sia uno strumento nuovo per educare e formare – quindi il tema dell’imprenditorialità, non solo mansioni, ma sempre più imprenditori. Cosa significa la tecnologia, significa piattaforme, nuove reti, nuovi meccanismi di coordinamento, nuove relazioni che possono essere attivate non soltanto tenendo insieme i bisogni ma tenendo insieme risorse diverse   (oggi le piattaforme non sono solo tra cooperative, ma sono ad esempio anche tra cooperative e utenti, imprese for profit, soggetti tecnologici eccetera); e poi c’è il rapporto con la comunità: la tecnologia è uno strumento straordinario e a basso costo messo in mano a una cooperativa, a un’impresa sociale per creare nuove occasioni di rigenerazione della comunità. Oggi in molti casi la comunità si rigenera partendo dalla community – faccio il classico esempio delle social street: che un gruppo chiuso di Facebook sia in grado di rigenerare una strada, come via Fondazza o altri 300 casi in Italia, o che molta della relazione online sia un detonatore per attivare della relazione offline – questa è un’opportunità unica.

Quindi sì, bisogna investire con convinzione e soprattutto fare un passaggio dalle competenze tipiche, che sono quelle formative della certificazione e dei processi, ma anche quelle legate all’apertura, all’innovazione, alla creatività, alla digitalizzazione: tutte cose che servono a sostenere una competitività in un contesto che cambia.

BB: Anche l’improvvisazione, se vogliamo?
PV: Sì, perfetto, anche l’improvvisazione, perché i bisogni oggi sono sempre più personalizzati: ai bisogni di cura, ad esempio, si fa sempre più fatica a rispondere non solo perché ci sono poche risorse, ma anche perché ormai sono tutti personalizzati… e le risorse pubbliche tendono invece a creare degli standard, a dare delle risposte standardizzate. La cooperazione, con l’apporto della tecnologia da un lato – durante il convegno si faceva l’esempio dei sensori, o di altri dispositivi tecnologici che aiutano ad esempio a monitorare il rapporto con il proprio caro dentro una residenza oltre che ad avere dei parametri medici disponibili a basso costo e in modo più veloce: sono tutti elementi che possono accelerare dei processi che comunque sono inevitabili e che, per non spiazzare il lavoro hanno bisogno però di una presa di consapevolezza delle cooperative sociali e di un investimento.

BB: Parlavamo prima dei principi della cooperazione e ne approfitto per chiederle: ma oggi cosa significa collaborare? Come si misura? Quali risultati e impatti porta la collaborazione? Il suo contraltare è la competizione…
PV: Sì allora, il tema della collaborazione oggi è pervasivo, diciamo che è un concetto molto liquido. Collaborare significa lavorare insieme, cooperare significa operare insieme: l’opera è diversa dal collaborare…

BB: Beh qui si riferisce a Hannah Arendt, della “Vita activa”…
PV: Bravissimo, proprio per questo noi sappiamo che le cooperative non devono, come una semplice piattaforma di sharing economy, condividere i mezzi, ma se vogliono cooperare, quindi mettere al centro il lavoro come opera, devono postulare anche la condivisione dei fini. La collaborazione oggi sta diventando pervasiva, perché la gente ha un gran bisogno di senso e di costruire identità attraverso le relazioni. La collaborazione è diventata un po’ un attivatore, un meccanismo tanto nelle imprese quanto nelle policy, per costruire la socialità, in un contesto che è sempre più liquido.
Però è cosa ben diversa cooperare! Non basta solo condividere i mezzi tra persone che condividono uno spazio o un’iniziativa, la cooperazione fa un salto in più e si immagina anche come quei mezzi possano infrastrutturare i fini e quindi le identità e il futuro delle persone che si mettono insieme. È un passaggio non da poco. Ecco perché non bisogna confondere la collaborazione con la cooperazione: non vanno messe in contrasto assolutamente, però sono due cose diverse.

BB: Certo. In maniera molto didascalica, visto che abbiamo fatto riferimento a quelle due categorie di Hannah Arendt: che cos’è l’homo laborans e che cos’è l’homo faber?
PV: Il tema dell’homo laborans e dell’homo faber oggi vengono fuori perché il tema del lavoro è un tema che sta in qualche modo diventando quasi superfluo, nel senso che nella società attuale sembra quasi che la ricchezza possa fare a meno del lavoro, e oggi gran parte delle imprese, come quelle che citava prima, Uber ad esempio, sembra quasi che abbiano bisogno solo del cittadino consumatore, non più del cittadino lavoratore. Questo perché, appunto Hannah Arendt insegna, l’idea del lavoro si è ridotta, quindi il lavoro non è più solo il reddito o il giusto compenso, il lavoro è la capacità di una persona di trasformarsi, di realizzarsi in ciò che fa. Da questo punto di vista, prima di pensare alla tecnologia, prima di pensare all’effetto di spiazzamento che questa può generare, bisogna recuperare l’idea di lavoro come occasione di trasformazione e di senso della persona. Se noi partiamo da questo recuperiamo l’idea di lavoro e recuperiamo la dimensione di utilità; se noi pensiamo al lavoro solo e esclusivamente come reddito faremo una gran fatica a sostenere questa crisi.

BB: Ma se il lavoro è agente trasformativo della persona, il non lavoro che cos’è?
PV: Il non lavoro è una dimensione che disumanizza la persona. Perché la persona si realizza attraverso il lavoro. Per cui è importante anche dove lavori, come lavori, ecco perché il lavoro cooperativo, in cooperativa, è importante.

BB: Ci spieghi meglio questo passaggio
PV : La cooperativa realizza quell’idea di lavoro per cui non è importante solo cosa fai, qual è il fine.. ma è importante il come lo fai. Quindi il fatto che sia all’interno di una dimensione democratica, in cui la libertà del socio ad esempio viene esaltata, partecipata, è una cosa che realizza la persona. Quindi il tema della tecnologia è anche un’occasione straordinaria per riflettere sul lavoro. Il lavoro come occasione trasformativa parte da qual è il senso dell’azione che sto facendo.

BB: Viviamo in un periodo di crisi quasi come vincolo sistemico: cosa stiamo dando per scontato in questo scenario? Cos’è che ci tiene ancorati al passato, quali sono le categorie da rottamare e le parole chiave da andare invece a rimettere in primo piano?
PV:
La prima che mi viene in mente è l’idea di uno sviluppo che si basa sul binomio stato/mercato: cioè il mercato che produce ricchezza e lo stato che la ridistribuisce. Questa crisi ha dimostrato che questo dualismo non è in grado di portare a uno sviluppo sostenibile. C’è bisogno di mettere in mezzo la società, i corpi intermedi, la biodiversità del modo di fare impresa, e c’è bisogno soprattutto di immaginarsi un modo di fare impresa che abbia come finalità – non come esternalità ma come finalità – il tema dell’equità. Ecco perché parlavamo prima della differenza con le piattaforme di sharing economy. Per me l’obiezione non è se sei for profit o no profit, tecnologica o non tecnologica… a me interessa COME produci valore. Non mi basta più quanto pil produci: la crisi ci ha detto che non è importante quanto pil produci. La crisi ci ha detto che è importante come lo condividi e come lo ridistribuisci. Per fare quest’operazione qui i paradigmi che conosciamo, quelli tradizionali, del mercato e dello stato, da soli non tengono. Quindi il primo elemento da rottamare è questo dualismo, legato al concetto di economia politica, dai tempi di Adam Smith, quella “classica”, quella tipicamente liberista.

BB: Quell’economia politica “classica” che poi ha smantellato anche le altre economie; ad esempio Polany ne individuava quattro: stato, mercato, economia domestica e reciprocità/dono…
PV: Sì, Polany individuava una pluralità di scambi all’interno del sistema economico, poi invece ci siamo atrofizzati a uno scambio di equivalenti, per cui ogni cosa deve avere un prezzo e il prezzo è la misura del valore… questa roba qua ha corrotto gran parte degli scambi, finanche le motivazioni di alcune persone, basti pensare al tema della finanziarizzazione e di quello che è successo. Quindi questo secondo me è molto importante. L’altro tema gigantesco è il tema della democrazia, nel senso che questa crisi ci dice che non è importante soltanto la democrazia come antefatto partecipativo, che ci garantisce la rappresentanza, ma senza democrazia economica non c’è neanche una reale democrazia. Cioè se noi non diventiamo consapevoli che le scelte che facciamo – di consumo, di partecipazione, anche le scelte in ambito economico – sono un pezzo della democrazia che costruiamo, e deleghiamo soltanto alla democrazia cosiddetta “politica” la costruzione del nostro progresso sbagliamo di grosso, perché poi, come succede adesso, la democrazia va in scacco al mercato…
La classica frase è “ce lo chiedono i mercati”, una frase che ci dà la cifra del baratro in cui siamo caduti. La democrazia dev’essere il regno dei fini, non il mercato! Invece adesso siamo in un ribaltamento in cui il mercato detta i fini e la democrazia in qualche modo definisce i mezzi.

BB: Sì, sembra la lezione di Amartya Sen…
PV: Assolutamente.

BB: Andiamo verso la conclusione: in che modo la comunità, la collettività può essere di supporto anche al singolo nel nuovo panorama di crisi permanente?
PV: La comunità innanzitutto va rigenerata, perché non bisogna dare per scontato che esista, sia disponibile e che aiuti il singolo; la comunità è una condivisione, una socializzazione di intenti che nasce nel tempo: ha bisogno di relazioni, ha bisogno di tempo. Ad esempio noi abbiamo alcune comunità – basti pensare ai paesi, ai borghi o ad alcune nostre città – dove questa dimensione di civitas nasce da processi che si sono costruiti nel tempo attraverso le relazioni. Oggi costruire le comunità è molto più difficile perché abbiamo molto meno tempo da dedicare alle relazioni. Oggi è molto più facile costruire relazioni con whatsapp, che mi costa di meno, e diventa molto più difficoltoso andare a trovare un amico… quindi andare a trovare un amico mi costa molto di più che mandargli un messaggino! Ovviamente questo, pur facilitando i contatti, distrugge molto quell’idea di comunità che nasce nella nostra cultura. Ecco perché si sta ritornando, nei processi di rigenerazione urbana o nelle politiche collaborative in città, o nelle nuove imprese di comunità e cooperative di comunità, alla logica comunitaria. Perché la comunità prima di diventare un elemento di utilità oggi dev’essere riattivata; non va dato per scontato che ci sia una comunità. Il singolo quindi oggi può costruire la sua identità partecipando alla comunità ed è, secondo me, una delle cose più interessanti che la crisi ha fatto emergere. Quindi la globalizzazione di fatto, da un lato ha disgregato, dall’altro però ha reso più importanti le comunità e i territori.

BB: Certo. Professore, ancora due domande: la narrazione o l’avventura intellettuale che più l’appassiona oggi attorno a questi argomenti e la narrazione, la retorica che invece più la infastidisce.
PV:
In questo momento la cosa che mi appassiona di più tra le cose che sto facendo ha a che fare con l’educazione: io penso che oggi gran parte dei temi che stiamo trattando hanno bisogno di una nuova spinta, investimento nell’educazione all’imprenditorialità…

BB: ha usato la parola Spinta alludendo a quella Spinta gentile di Thaler e Sunstein?
PV: (sorride) sì, se vuole anche sì, nel senso che comunque c’è bisogno di una presa di consapevolezza che la dimensione del cambiamento inizia all’interno del processo educativo. Quindi qualsiasi società che proviamo a costruire ha bisogno dell’educazione di quelli che si impegneranno a farla. Quindi il tema dell’imprenditorialità, nel tempo, questa crisi l’ha abbastanza ridotto. Io penso che ci sia bisogno di una nuova generazione di imprenditori e di imprenditori sociali che costruiscano occasioni nuove di sviluppo, di nuova socialità, di nuova economia… e questa cosa qui mi appassiona tantissimo. Lavorare su queste categorie, soprattutto in ambito cooperativo, tutto quello che è il tema delle start-up cooperative, dei nuovi bandi…. Sono cose fantastiche perché vedi da un lato l’entusiasmo dei giovani che vogliono rischiare – perché l’imprenditore deve rischiare, ecco perché è importante l’educazione, perché se non educhi al rischio non avrai mai innovazione – ed è bello vederli rischiare e poi è bello vedere anche dei nuovi modi di fare cooperativa anche attraverso imprese che non sono cooperative: questa cosa qui mi affascina tantissimo.
La cosa che in qualche modo mi affascina di meno, invece, è questa retorica del tema della sharing economy, che viene trattata in maniera opposta, conflittuale al tema delle relazioni, della comunità. Tutte le tecnologie quando sono nate hanno trovato sempre un’avversione al cambiamento; questi temi, sta a noi imparare ad usarli, ma costruire una retorica secondo cui tutto quello che è in qualche modo un portato di tecnologia ha come conseguenza lo spiazzare la persona, il lavoro umano… mi sembra una perdita di tempo.

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